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Enrico Bafico

Enrico Bafico


Nasce da famiglia genovese (originaria di Santa Margherita Ligure) nel tragico settembre del 1943 a Borgo San Dalmazzo (CN). Conseguita la maturità classica, negli anni ’60 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza sollecitato dal genitore avvocato ma abbandona i corsi per seguire le lezioni di Arte presso l’Accademia Ligustica di Genova sotto la direzione di Guido Zanoletti e Rocco Borella. Contemporaneamente approfondisce anche gli studi di filosofia per laurearsi alla facoltà di Genova presentando una tesi in Estetica. La formazione classica e gli argomenti da lui trattati saranno fondamentali per la sua produzione artistica. Nel 1968 si interessa al futurismo.

Nel 1971 si reca a Carrara dove apprende i rudimenti della tecnica della scultura in marmo. Nel 1975 viene selezionato per la Quadriennale di Roma dove fu esposta una sua opera di tendenza concettuale dal titolo “Crittogramma simultaneo”. Sempre nell’ambito dell’arte concettuale compie poi un’altra incursione facendo eseguire un buco conico da parte a parte su quattro volumi impilati della storia dell’arte di G. C. Argan dal titolo “Per andare dove dobbiamo andare”. Tale opera è stata realizzata con il contributo dell’Officina Navale Zamponi di Genova utilizzando un potente alesatore. Opera rimasta confusa tra i suoi libri per quarant’anni che adesso ripropone, il titolo è preso in prestito dal noto film “Totò Peppino e la Malafemmina”. Si guadagna da vivere nelle arti applicate alla pubblicità e nel 1984 realizza per la “Società del Grés” di Bergamo l’opera “La città in Grès” consistente in un plastico a pianta di poligono irregolare del diametro di circa tre metri sul quale costruisce una città ideale dell’Italia medioevale dei Comuni. A tal fine vengono impiegati nei vari colori tutti i materiali prodotti dall’azienda con la possibilità di smontarli e riassemblarli ad uso dei vari stand fieristici del settore. La realizzazione è stata esposta per la prima volta alla fiera del “Riabitat” di Genova. Di quegli anni rimangono il bronzo “Profiteroles” e “La maschera trifacciale dell’uomo che ride” e il "Soffio". Dal 1985 in poi si dedica pressoché esclusivamente alla pittura ad olio in continua esplorazione dello spazio metafisico.

I soggetti del suo immaginario pittorico sono pervasi da enormi cachi, signori al biliardo rigorosamente attrezzati di guanti gialli, più spettatori che competitori, kellerine in divisa con grembiule e crestina, gnomi, cani, visioni oniriche della Genova ottocentesca, navi infinite dalle innumerevoli ciminiere che cariche di enigmi cercano di invadere lo spazio circostante solcando il mare sul filo ambiguo che separa ciò che è impresso sulla tela e lo spettatore. Nei suoi dipinti tutto è pervaso da un grande silenzio, da una quiete che si percepisce solo apparente poiché ogni particolare è pronto, si potrebbe quasi dire sta all’erta, per cercare di attenuare un eventuale risvolto tragico che incombe su tutto il paesaggio. Nella sua pittura è costantemente presente un aspetto di amara ironia che trasforma il tutto nella partita conclusiva del giocatore scanzonato e compulsivo inevitabilmente destinato a perdere. Si prova la sensazione che ogni oggetto potrebbe dissolversi da un momento all’altro come la nuvola di fumo dell’ultima sigaretta.

Il dipinto presente alla biennale di Venezia del 2011 dal titolo attesa o il nostro biliardo, scelto dall’amico, filosofo e germanista Anacleto Verrecchia, è particolarmente significativo di questo suo messaggio pittorico poiché per uscire da una mentalità culturalmente arretrata nella continua e ossessiva ricerca del “nuovo” ad ogni costo, Enrico propone il porto e la lanterna della sua amata Genova. Occorre aggiungere che nelle sue opere ci sono quasi sempre un interno e un esterno a stabilire un confine tra il finito e l’infinito, la permanenza e il transitorio riconducibili alla vita e alla morte. Significativa e emblematica della natura dell’artista la cura del dettaglio che sta a dimostrare il suo mancato definitivo “distacco” dall’infanzia, unico periodo della vita dove ogni particolare assume l’importanza sconfinata di un mondo ancora vergine e tutto da esplorare. Anche nei ritratti che gli vengono commissionati i protagonisti sono donne e uomini in attesa di qualcosa di indefinibile, immobili come cristalli e immersi nel costante ripasso di un intimo monologo interiore. Essi comunicano solo la loro fragile umanità soverchiata dal destino che incombe. I cani e i vari frutti inseriti in ogni dipinto pare invece siano “umani” al punto di interagire con l’osservatore rivitalizzando in parte lo scenario complessivo. Addirittura le sue navi infinite pare siano masse organiche in movimento che cercano di sfondare la tela per scompigliare tutto il gioco di incastri del dipinto.

Per chi non conoscesse a fondo il percorso artistico di Enrico Bafico, solo in un ritratto sono stati assegnati al modello un corpo e una mente che invadono il perimetro di gioco esterno dove il suo sguardo scruta minuziosamente sia lo spettatore che tutto l’al di là del dipinto. Quest’opera, intitolata “Mauro Giovanelli e l’amicizia vissuta dall’infanzia”, è importante per delineare il carattere dell’artista che nel rappresentare colui che lo riconduce totalmente nel suo universo infantile, nel suo habitat, lo invita ad abbandonare inconsapevolmente il suo apparente cinismo.


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